Intervista con Giovanni Falzone - settembre 2011

Giovanni Falzone - foto di Andrea Boccalini
 
Giovanni Falzone - fotografia di Andrea Boccalini
 
INTERVISTA CON GIOVANNI FALZONE
Settembre 2011
Di Eva Simontacchi
Fotografie: A. Boccalini

GIOVANNI FALZONE

 Giovanni Falzone
, musicista poliedrico, eclettico, ricco di idee e d’inventiva, compositore dalla ricca vena creativa è oggi da annoverare tra i più originali e prolifici artisti e compositori italiani riconosciuti in tutt’Europa. La sua avventura inizia nella banda musicale di Aragona, all’età di 17 anni, per poi proseguire con lo studio della tromba presso il Conservatorio V. Bellini di Palermo, dove si diploma in soli quattro anni sotto la guida del Maestro G. Ciavarello. I suoi studi proseguono presso il Conservatorio G. Verdi di Milano per lo studio del jazz, sua grande passione fin dal primo ascolto. Collabora stabilmente per otto anni, fino al 2004, anno in cui si dedica definitivamente al jazz e alla composizione, con l’Orchestra Sinfonica di Milano, suonando con direttori e solisti di fama internazionale quali Giuseppe Sinopoli, Claudio Abbado, Carlo Maria Giulini, Riccardo Chailly, Yutaka Sado, Luciano Berio, Vladimir Jurowski, Valere Giergev. Si aggiudica, bruciando tutte le tappe e dimostrando talento, dedizone e passione per la musica e la composizione, prestigiosissimi premi, anche a livello internazionale, quali Best Talent Umbria Jazz Clinics 2000, Django D’Or 2004 come miglior nuovo talento, Top Jazz 2004 Musica Jazz, come miglior nuovo talento, Trofeo Insound 2008 per la categoria fiati, e il premio accordato dall’Academie Du Jazz 2009,   2° classificato come Miglior Musicista Europeo.
 

Prolifico nella scrittura e nella composizione, ha all’attivo numerosi progetti e album a suo nome, tra cui: “Music For Five” (Splasc(H) Records 2002, “Big Fracture” Soul Note 2003, “Earthquake Suite” Soul Note 2004,   “Suite For Bird”  Soul Note 2005,   “Meeting In Paris” Soul Note 2006,   “R-Evolutin Suite” Soul Note 2007,  “Stylus Q.” Abeat 2008,  “Around Jimi” Cam Jazz 2010, “Songs” IF DUO (abeat Records, 2011) .  E’ in uscita “Around Ornette” per l’etichetta Parco della Musica di Roma, di cui parleremo nell’intervista.
In qualità di Band-Leader ha suonato in vari Festival Jazz Nazionali ed Internazionali:
Umbria Jazz Winter, “Villette Jazz Festival” di Parigi, Clusone Jazz, AH-UM Jazz Festival, Bergen Natt Jazz, Copenaghen Jazz Festival, Aarhus International Jazz Festival, Sardinia Jazz Festival, Pavia Jazz Festival, Vicenza Jazz Festival, Monticelli Jazz, Molde Jazz Festival, La Palma Jazz, Bolzano Jazz, Teano Jazz, Tortona Jazz Festival, Iseo Jazz Festival, Festival Delle Silene, Edinburgo Jazz Festival, Odessa Jazz Festival (Ucraina) Bordeaux Jazz Festival, ZerozeroJazz, Auditorium Parco della Musica (Roma), Skopje, Villa Celimontana, Grenoble Jazz Festival, Nantes Jazz Festival, etc..  

Insegna strumento e musica d’insieme jazz presso il Conservatorio  “G. Verdi” di Milano dal 2005, al Conservatorio “G. Verdi” di Como dal 2008 e ha collaborato con i corsi individuali di strumento e musica d’insieme della New York University Florence, alternando l’attività  solistica  a  quella  compositiva.    

 Giovanni Falzone - foto di Andrea Boccalini

Giovanni Falzone - fotografia di Andrea Boccalini

INTERVISTA:


Eva Simontacchi: La prima domanda che sorge spontanea è: Come è successo che hai preso questa decisione, che sarà stata senz’altro difficile e coraggiosa, di lasciare l’ambito classico per passare al jazz?

Giovanni Falzone: Per molti anni mi sono dedicato alla musica classica perché era quello che gli studi in qualche modo mi chiedevano di fare. Quando mi sono iscritto al Conservatorio, e vedevo che tutti mi dicevano che avevo questa facilità per suonare la tromba,  ho pensato bene di concentrarmi al massimo, per cercare di terminare gli studi nel minor tempo possibile, visto che ero “vecchio” rispetto alla media degli iscritti. E così è stato per fortuna, perché a 22 anni mi sono diplomato, dopo soli 4 anni. In realtà ero concentrato sugli studi, perché vedendo che le cose che facevo mi venivano bene, e tutti mi incoraggiavano a diventare professionista nell’ambito classico, sono andato avanti.  E così è stato perché le prime audizioni che ho fatto subito dopo il diploma sono andate bene, e ho iniziato a lavorare nell’ambito classico, per cui  in realtà io mi sono ritrovato a lavorare in quell’ambito, ma fin dai primi momenti e dai primi studi ho sempre ascoltato il jazz. A onor del vero quello più arcaico, perché nella zona mia, di Agrigento - io sono di un paesino in provincia di Agrigento che si chiama Aragona - non c’era la possibilità di ascoltare molto jazz, e quel poco che c’era era quello più popolare, tant’è vero che i miei genitori quando ho manifestato il desiderio di avere una musicassetta di jazz, mi hanno regalato Armstrong. Non però le musiche di Armstrong strumentista dei primi dischi Hot Five, Hot Seven, ecc. ma l’Armstrong più popolare, quello di “Hello Dolly”, “C’Est Si Bon”, “What A Wonderful World”, e così via. Per cui in realtà io per molto tempo ho pensato che il jazz potesse essere questo. Però anche già solo questo, quello più popolare, un po’ più semplice all’ascolto, mi piaceva. Di conseguenza studiavo classica pensando che un giorno avrei quantomeno cercato di capire cosa fosse quella musica. E così è stato. Mi sono diplomato, ho vinto un paio di audizioni che mi hanno subito messo in orchestra; non mi sono quasi neanche accorto della transizione: sono passato dall’essere studente a lavorare in orchestra. Lavorando in orchestra bisogna chiaramente mantenere un certo tipo di impegno, perché si tratta di un lavoro molto serio.  Così il jazz da un lato mi piaceva, ma dall’altro avevo questo lavoro molto impegnativo, che mi assorbiva parecchia energia, e che non mi dava ancora la possibilità di concentrarmi altrove.

E.S.: E qui ci avviciniamo al punto in cui ti avvicini maggiormente al jazz…. Com’è successo?

G.F.: A due anni dal diploma, dopo varie collaborazione qua e là per l’ Italia sono arrivato a Milano. Ho vinto il concorso per l’Orchestra Sinfonica di Milano e qui in qualche modo, rispetto alle altre volte, per la prima volta in vita mia diventavo stabile. Cioè, anziché fare il contrattino che si fa normalmente con le compagini orchestrali, con scritture a tempo determinato, che possono durare quindici giorni,  un mese, due mesi, per la prima volta mi fermavo in un posto a lungo termine. Vista la situazione più stabile ho iniziato a pensare che probabilmente fosse arrivato il momento di approfondire l’aspetto jazzistico che bussava sempre più chiaramente alla mia porta. Se devo analizzare i momenti principali o di svolta della mia vita, sono tutti momenti abbinati a delle casualità pazzesche che ho saputo cogliere e approfondire, però la radice è spesso stata una casualità. Un giorno, uscendo da una sessione di registrazione per la Decca con Riccardo Chailly dalla Sala Verdi del Conservatorio  di Milano affittata per l’occasione, nella bacheca del Conservatorio leggo che sarebbe nata quell’anno la nuova classe di jazz, e mi sono detto: “Che coincidenza! Sarà una coincidenza ma voglio capire perché è successa questa cosa. Ormai  sono stabile qui a Milano, vedo di far conciliare le due cose. Vediamo, magari una volta chiederò un permesso, una volta mi organizzerò con l’insegnante”…. e così è stato, e ho iniziato a intraprendere questo studio.  Nel frattempo collaboravo con l’orchestra sinfonica, ed ero dunque un professionista, però  il jazz, a parte l’interesse  che avevo avuto durante i primi anni di studio, non avevo mai avuto modo di approfondirlo. Il fraseggio e il linguaggio sono totalmente diversi rispetto a quello al quale ero abituato. Anche l’armonia; non conoscevo nulla di tutte queste materie, avendo studiato musica classica al Conservatorio. Poi nella realtà molte cose sono simili. Nelle due discipline riesci a trovare le affinità, però lì per lì è tutto diverso a livello di impatto.

E.S. E’ successo tutto molto rapidamente…… raccontaci come.


G.F.: Si, in effetti.  Mi sono iscritto e ho iniziato a studiare il jazz. Ho avuto la fortuna di incontrare Tino Tracanna che per me è stata una delle persone importanti della mia vita di musicista jazz grazie al suo approccio e al suo metodo d’insegnamento. A parte che è un grande musicista e ho una stima di lui infinita,  anche come insegnante, essendo un musicista che si è creato in maniera autodidatta, mi ha sempre messo in condizione di farmi  innamorare del jazz senza farmi pesare molto il fatto che  fossi  piuttosto all’asciutto riguardo a questa materia. Anzi, è stato uno dei primi musicisti che mi ha incoraggiato, perché mi ricordo che dopo il primo anno di frequenza del corso un giorno ci disse  “Ragazzi, la prossima volta portate dei brani, che proviamo a leggerli e a montarli in classe”.  Tutti quanti portammo due o tre brani. Quando fu il mio turno cominciammo a provare i miei brani e Tino a un certo punto ricordo che mi disse: “Questi brani sono abbastanza particolari,  spiegami come li hai scritti.” Era molto incuriosito dalla mia scrittura. E io risposi che avendo a che fare ogni giorno con la musica classica contemporanea, o comunque classica, o anche antica, perché ho avuto la fortuna di suonare da Monteverdi a Berio, mi ero detto:  “Mi piacerebbe approfondire questo modo di coniugare le cose, visto che derivo da questo mondo e il jazz mi piace”. Trovo che comunque l’aspetto della creatività estemporanea sia la realtà che mi interessa di più approfondire nella mia vita, però mi piacerebbe farlo in maniera come più mi appartiene. Io fino adesso ho fatto questo percorso, non vorrei chiaramente cancellarlo. Se fosse possibile mi piacerebbe che diventasse un tesoro. Grazie all’intelligenza e all’apertura mentale di Tino, che anziché dire : “No, sai il jazz è quella cosa lì”, come spesso fanno gli insegnanti un po’ più chiusi o bigotti (in tutte le discipline ce ne sono),mi disse “Porta il tuo materiale, mi piace il modo di scrivere che hai, e vediamo di approfondire”. Quando arrivai al numero di pezzi necessari per registrare un disco  mi disse “Questi brani per me sono da registrare, assolutamente, anzi mi farebbe piacere farlo insieme”. E così è stato. Mi sono ritrovato ad andare in studio con dei musicisti che sono Ferdinando Faraò alla batteria, Tito Mangialajo al contrabbasso, Francesco Pinetti al vibrafono (che era un mio compagno di classe all’epoca) e Tino Tracanna che in quel caso compariva come ospite. Abbiamo registrato questo disco che si chiama, appunto, “Music For Five”.  Il titolo nasce proprio dal fatto che a differenza degli altri miei compagni di classe mi ero accorto che in maniera del tutto naturale e spontanea avevo scritto le parti per cinque musicisti anziché come si fa normalmente, scrivendo uno spartito  con le sigle creando poi l’arrangiamento man mano. Mi era venuto spontaneo proprio perché ero cresciuto con quel  tipo di formazione.  Ho voluto che questa componente, questa particolarità emergesse dal titolo del disco “Music For Five”. Questo è stato  l’inizio della mia avventura.  Lo stesso anno mi sono recato a Umbria Jazz, Siena e Nuoro per seguire i seminari estivi, facendo un vera e propria full immersion. Quell’estate è stata molto determinante per me. A Perugia ho incontrato un insegnante di tromba che mi ha veramente incoraggiato e mi ha detto: “Secondo me se tu credi in ciò che stai facendo, può diventare la tua vita, perché hai un modo molto particolare di intendere la musica, e se riesci a svilupparla con serietà  puoi diventare davvero qualcuno”. Ho creduto molto a quelle parole, tant’è vero che quell’anno ho ottenuto la borsa di studio. Così quell’anno  una volta rientrato in orchestra ho iniziato a pensare che probabilmente quella fosse la mia strada, e ho continuato ad approfondire sempre più il jazz, ho iniziato a scrivere sempre più, e l’orchestra stessa è stata fonte di un grande contributo, nel senso che oltre chiaramente a darmi una possibilità di lavorare, di mantenermi ed essere tranquillo,  non avevo bisogno di distrarmi  per andare a fare cose che non mi interessavano. L’orchestra mi ha dato proprio la possibilità di concentrarmi su quello che mi interessava, che era appunto l’aspetto compositivo e creativo della musica. Dopo i primi risultati la direzione artistica dell’orchestra mi ha commissionato, per due stagioni consecutive, alcune composizioni originali che vedevano coinvolti sia musicisti classici che improvvisatori, da eseguire all’interno della stagione da camera.

Il fatto che fossi in orchestra  ad assorbire quelle sonorità, quegli strumenti, quei modi di concepire il contrappunto, mi ha molto aiutato a comprendere alcune regole compositive. Chiaramente un piccolo merito in questo l’ho avuto perché per ogni brano che suonavo analizzavo la partitura, ero molto curioso. Poi studiavo sul campo. Non ho studiato sui libri, quelli convenzionali. Poi ho approfondito perché mi interessava capire l’aspetto più formale delle cose però all’inizio è stata una sorta di esplorazione sul campo perché analizzavo molto attentamente le partiture. La tromba in orchestra ha tante pause, quindi durante le pause ascoltavo cosa facevano gli altri, osservavo la partitura, mi sottolineavo le cose che mi piacevano, poi andavo a casa e cercavo in maniera del tutto autodidatta di rielaborare delle informazioni, scrivendo di volta in volta piccoli frammenti compositivi da fare eseguire, durante l’intervallo, ai miei colleghi. Probabilmente questo mio approccio anticonvenzionale è proprio dovuto al fatto che la mia formazione è avvenuta in maniera atipica.

 Giovanni Falzone - fotografia di Andrea Boccalini

Giovanni Falzone - fotografia di Andrea Boccalini

E.S.: Dunque sei riuscito nel tuo intento di sfruttare al meglio la tua esperienza per utilizzare un linguaggio e idee originali nel campo della composizione jazzistica che è ciò che ti appassiona…….

G.F.: Si, quell’esperienza mi ha dato sicuramente molto a livello di formazione, poi pian pianino ho studiato le regole più specifiche del jazz, ho studiato composizione ed ho approfondito in maniera più capillare. Analizzando il mio percorso mi sono reso conto che ho sempre approcciato le cose seguendo la passione per poi approfondirle in un secondo tempo. Con la tromba è stata la stessa cosa: prima ho imparato a suonare ad orecchio, poi mi sono dedicato allo studio. Torniamo al periodo orchestrale. Il secondo anno dopo la rappresentazione del mio lavoro cameristico per quintetto di jazz e orchestra da camera, sotto consiglio di un mio caro amico feci ascoltare la registrazione alla Soul Note. Spedii il materiale senza alcuna speranza e Bonandrini dopo l’ascolto di questo live con l’orchestra mi convocò di corsa e mi disse: “Ti voglio mettere sotto contratto”, e mi diede questa grande soddisfazione. Così ebbe inizio il periodo Soul Note, con tutti i dischi usciti con loro. Nel frattempo chiaramente  mi cresceva la speranza che questa realtà potesse diventare la mia vera forma di espressione musicale. E in maniera molto naturale cominciai a pensare di staccarmi dall’orchestra. Per circa quattro anni, dal 2000 al 2004, continuai a collaborare con l’orchestra pur lavorando anche sui miei progetti jazzistici facendo tanti sacrifici, perché per stare bene in un’orchestra devi lavorare molto, devi studiare tanto, devi essere preciso, insomma, una difficoltà diversa. Però man mano andando avanti capivo che non potevo continuare così,  perché mi accorgevo sempre più che ciò che mi interessava era l’idea di poter aggiungere qualcosa di mio alla musica che eseguivo. Con la musica classica sei molto più vincolato nel fare ciò. Pian pianino, pian pianino mi sono sganciato dall’orchestra incoraggiato dai risultati che man mano crescevano: nel 2004 a giugno ricevevo il premio “Django d’Or” come miglior nuovo talento, poi a dicembre, sempre dello stesso anno, la rivista Musica Jazz Italiana mi premiava come Best Talent. Questi riconoscimenti mi hanno senza dubbio incoraggiato. Nel frattempo sentivo che il mio suono si andava trasformando, per cui cominciavo a non sentirmi più a mio agio in sezione. Siccome avevo fatto molto bene quel lavoro e la sezione era formata da straordinari professionisti, quando mi resi conto che il mio suono stava cercando un’altra direzione, chiamai tutti i miei colleghi e dissi loro: “Vi ringrazio per questo importante periodo della mia vita, ma io da qui in poi devo andare per la mia strada”. Per me è stata un’esperienza bellissima e ho intrapreso un nuovo percorso in maniera veramente serena. A distanza di sette anni posso dire di non essermi mai pentito nemmeno per tre secondi. Non tornerei mai indietro. Se dovessi rifare tutto quello che ho fatto, si! Ma non cambierei nulla di ciò che ho fatto.

E.S.: Una scelta felice, e vincente senza traumi, e con molte soddisfazioni ben meritate! Ci parli del tuo ultimo progetto “Around Ornette”?


G.F.:  Questa è l’ultima creatura, e come tutte le ultime creature è la più bella perché è la più vicina al momento stesso in cui sto parlando. Si tratta di una registrazione fatta a seguito di un concerto riuscito al Teatro Villoresi di Monza, poi l’indomani siamo andati all’Auditorium di Roma e ho fatto un altro live e l’abbiamo registrato. Il disco uscirà per ”Parco della Musica Records” una nuova etichetta che produce jazz da 5 o 6  anni e uscirà a settembre del 2011. Questo progetto è stato inciso da un gruppo di musicisti straordinari, che mi hanno fin da subito manifestato grande interesse e che mi reputo fortunato ad aver messo insieme.  E’ un progetto dedicato a Ornette Coleman. Lui è stato un grande caposcuola, e ci tenevo a fare un tributo che fosse un tributo a lui, che è un musicista ancora attuale e vivente ed è bello per me rendere omaggio a un musicista che è ancora qui tra noi. Allo stesso tempo volevo realizzare un tributo che avesse a che fare con la mia visione della musica, per cui, dato che considero Ornette un caposcuola assoluto, e lo reputo uno di quei musicisti che hanno dato un grandissimo contributo al ‘900,  volevo fare un tributo a lui sotto una veste un po’ più ampia, mescolando il mio background personale derivato dalla musica classica contemporanea al free jazz che è quello in cui Ornette si distingue di più in assoluto, e al jazz più mainstream. Per cui ho voluto mettere insieme questi tre elementi e ne è risultata una suite in otto movimenti che ho da poco registrato per l’Auditorium Parco della Musica di Roma in uscita nel mese di settembre 2011. I musicisti che fanno parte di questo progetto sono Francesco Bearzatti al sax e clarinetto, Beppe Caruso al trombone, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. Il progetto è suddiviso in quattro brani di mia composizione e quattro brani di Ornette, che ho rivisitato e rielaborato quasi in maniera integrale, nel senso che ho aggiunto delle parti come special e come background. Si tratta di piccole cellule tematiche derivate dalle sue composizioni, che ho sviluppato ed elaborato per farne poi un discorso compositivo più articolato in modo da poter utilizzare il quintetto sia sottoforma di piccola orchestra, mi riferisco al fatto che ci sono delle pagine elaborate, arrangiate e scritte per tutto l’ensemble, sia come combo dove ogni musicista in maniera molto libera partecipa e da il proprio contributo all’intero svolgimento del quadro sonoro.
Detto ciò mi viene da concludere l’intervista con l’augurio che questo progetto possa andare in giro a suonare per cercare di essere una alternativa ai tributi più convenzionali, e con  un ringraziamento indiretto attraverso questa musica a Ornette Coleman per avermi dato tanto e per avermi reso un musicista libero  nei confronti di questo genere musicale che mantiene come forza principale il fascino di una continua metamorfosi.
Secondo me quando il jazz non avrà più  questa prerogativa principale come  prerogativa importante  ed elemento primario per affrontare qualsiasi tipo di lavoro, diventerà forse una musica un po’ più di maniera, e vorrei non lo diventasse mai.  Oggigiorno mi capita spesso di sentire molte cose che mi fanno pensare che ci sia la tendenza a far diventare il jazz un po’ musica di maniera, e c’è poca autenticità sia nei gesti, sia nel preparare un progetto, sia nel suono delle cose che si sentono in giro. Per quanto mi riguarda nel mio piccolo, senza peccare di presunzione, mi piacerebbe che il jazz mantenesse sempre questa forma di incognita…. Quando ascolti qualcosa che non comprendi subito al primo ascolto, forse  quell’ascolto merita più attenzione e forse ha anche il desiderio di raccontare, seppur piccola, la propria storia.